Franco Buffoni (a cura di), LA TRADUZIONE DEL TESTO POETICO, PP. 590, ed. Marcos y Marcos, 2004. www.marcosymarcos.com

Copertina Traduzione del testo poetico

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Il termine “traduttologia” non è ancora uscito dal gergo specialistico in Italia, mentre sono d’uso corrente translation studies nel mondo di lingua inglese, traductologie in Francia e Uebersetzungswissenschaft in Germania. La reticenza ad accettare il termine è la spia in Italia di un rifiuto più grave e radicale: quello che si possa concepire l’esistenza di una scienza della traduzione. Mentre in Francia se ne parla apertamente almeno dal 1963, quando apparve Les problèmes téoriques de la traduction di George Mounin. Un testo che divenne ben presto una specie di manuale europeo, con i suoi innegabili pregi, ma anche con la sua concezione rigorosamente strutturalistica della letteratura. Da questo impianto derivava a Mounin la certezza - ribadita più volte nel corso dell’opera - che prima di allora nessuna teorizzazione seria fosse mai stata tentata nel campo della traduzione. Antoine Berman ne L’épreuve de l’étranger1 invece in seguito (1984) dimostrò come - per esempio - nell’ambito del Romanticismo tedesco la questione traduttologica venga costantemente e sistematicamente dibattuta. E con argomentazioni ancora oggi vive e attuali. Tanto che Gianfranco Folena, il più accreditato avversario italiano di Mounin, nella premessa alla ristampa (Einaudi, 1991) di Volgarizzare e tradurre (1973)2 parla esplicitamente di “una bella smentita” a Mounin da parte di Berman.
Ma Berman non avrebbe avuto tale impatto e tale possibilità di ascolto se nel 1975 - con After Babel - George Steiner non avesse formalizzato la prima grande ribellione internazionale ai dogmatismi della linguistica teorica. E dico “internazionale” perché non da meno potrebbero definirsi la portata di certi studi - e di certe ribellioni - di Gianfranco Folena, allora come oggi purtroppo circolanti solo in Italia. Incidentalmente rilevo anche che, solo nella seconda edizione di Dopo Babele (Garzanti, 1994)3, Steiner inserisce Folena in bibliografia; ma lo fa indicando Volgarizzare e tradurre come apparso per la prima volta nel 1991, e quindi falsando completamente la cronologia delle priorità, avendo Folena trattato nello stesso modo molti dei temi di Dopo Babele già due anni prima (1973 vs 1975). Certamente Steiner non lo conosceva.

Nel 1975 George Steiner parlò dunque di necessità - da parte del traduttore letterario - di “rivivere l’atto creativo” che aveva informato la scrittura dell’“originale”, aggiungendo che la traduzione, prima di essere un esercizio formale, è “un’esperienza esistenziale”. Al di là delle provocazioni steineriane, potremmo chiederci come, operativamente, la traduttologia abbia tentato di contrastare il predominio linguistico-teorico nel proprio ambito di studi.

Gli sforzi si concentrarono dapprima nel tentativo di sfatare il luogo comune che tende a configurare la traduzione come un sottoprodotto letterario, invitando invece a considerarla come un Überleben, un afterlife del testo. Operazione in sé niente affatto originale, se come ricorda anche Mounin, quando nel 1548 Thomas Sébillet classificò le traduzioni fra i generi letterari non fece che “rispecchiare la tendenza in voga”. Ma ribadire quel concetto più di trent’anni fa fu una presa di posizione estremamente coraggiosa. E fu proprio un altro strutturalista, di ambito praghese, Jiri Lev?, che già nel 1963, pubblicando Umeni prekladu (divenuta poi patrimonio dell’Europa colta nella versione tedesca del 1969, Die literarische Übersetzung. Theorie einer Kunstgattung: La traduzione letteraria. Teoria di un genere artistico) riconsiderò il tema prestigiosamente.

L’opera di Lev? si divide in due parti fondamentali4: una prima teorica, comprendente i capitoli sulla pratica novecentesca del tradurre, sulle diverse fasi del lavoro di traduzione, sul problema estetico del tradurre, lo stile artistico e “traduttivo”, la traduzione di opere teatrali e, infine, la traduzione come problema storico-letterario. La seconda è invece imperniata sulla questione verso-prosa, sul ritmo, la rima, l’eufonia e la morfologia del verso. E si tratta di una parte che, relativamente alla questione specifica delle traduzioni di poesia, resta ancora oggi una delle poche trattazioni che affrontino esaurientemente anche questioni tecniche.

Un altro passo capitale della traduttologia contemporanea viene compiuto grazie a Friedmar Apel nel 1983, e proprio attraverso una severa critica a Jiri Lev?. Nel capitolo iniziale di Literarische Übersetzung5 Apel osserva infatti che “anche quanti considerano la traduzione come arte” (e il riferimento è ovviamente al sottotitolo dell’opera levyana) poi finiscono ugualmente con l’attenersi “a definizioni normative o ideali”. E per avvalorare la propria critica riporta queste due citazioni da Lev?:

  • Lo scopo del lavoro di traduzione è quello di mantenere, cogliere e trasmettere l’opera originale (il suo messaggio); non è mai quello di creare un’opera nuova che non abbia un antecedente. Lo scopo della traduzione è riproduttivo.
  • Quando diciamo che la traduzione è una riproduzione e che tradurre è un processo originale e creativo, noi diamo una definizione normativa e diciamo come la traduzione debba essere fatta. Alla definizione normativa corrisponderebbe la traduzione ideale. Quanto più debole è la traduzione, tanto più essa si allontana da questa definizione.

Quindi Apel aggiunge: “La problematica di una simile definizione si acuisce in Lev? in quanto egli tenta di concepire la traduzione come ‘genere artistico’. Il concetto di genere però ha senso solo ogni volta che esso presenta la dialettica forma-contenuto, mentre in Lev? - come anche nella maggior parte delle teorie traduttologiche della linguistica - il messaggio appare fondamentalmente come una invariante. Il suo concetto di traduzione si espone così alla stessa argomentazione con la quale la critica della conoscenza, sull’esempio di forme dell’imitazione, ossia del principio di mimesis, dimostra l’impossibilità della riproduzione in senso stretto”. Per concludere: “Non stupisce dunque che quegli approcci al problema di natura scientifico-letteraria, fondati su una visione storica, definiscano il concetto di traduzione in modo più aperto e soprattutto più dinamico, con lo svantaggio che i criteri di definizione sono spesso difficilmente afferrabili...”. Una posizione perfettamente riassunta nella seguente “proposta di definizione” da parte di Apel del lavoro di ricerca sulla traduzione letteraria: “La traduzione è una forma che insieme comprende e dà corpo all’esperienza di opere in un’altra lingua. Oggetto di questa ricerca è l’unicità dialettica di forma e contenuto, come rapporto di volta in volta instauratosi fra la singola opera e un dato orizzonte di ricezione (stadio della lingua e poetica, tradizione letteraria, situazione storica, sociale, collettiva e individuale). Nella nuova configurazione questa costellazione diventa sperimentabile come distanza dall’originale”. Con questa ipotesi di lavoro, Apel - come osserva Emilio Mattioli nella prefazione alla edizione italiana - “mette da parte tutta una serie di luoghi comuni e di questioni male impostate che hanno afflitto e affliggono il campo della traduzione, e propone la ricerca sulla traduzione in tutta la sua complessità, evitando ogni riduttivismo”. Apel ci pare criticabile solo per quanto concerne la necessità di contestualizzare maggiormente l’opera levyana. Se infatti egli può permettersi di constatare i limiti che lo studio di Lev? presenta, ciò va a merito anche dello stesso Lev?, che nel clima culturale egemonizzato dai formalismi degli anni sessanta, seppe indicare la via da percorrere per giungere - poi - a criticarlo.

“Io mi domando”, si chiedeva Céline nella lettera a M. Hindus del 15 maggio 1947, “in che cosa mi paragonino a Henry Miller, che è tradotto?, mentre invece tutto sta nell’intimità della lingua! per non parlare della resa emotiva dello stile...”. E ancora: “Mi interessano solo gli scrittori che hanno uno stile. Ed è raro uno stile, è raro. Di storie, invece, sono piene le strade, pieni i commissariati”6.

E lo stile è “intraducibile”, come per Croce è “intraducibile” la poesia. Sono posizioni tardo-romantiche che, facendo leva sui presupposti a) della unicità e irriproducibilità dell’opera d’arte; b) della indissolubilità di contenuto e forma, giungono a negare la traducibilità della poesia e della prosa “alta”. Tali concezioni sono l’espressione di un idealismo oggi particolarmente inattuale, contro il quale l’estetica del Novecento (e quella italiana in prima linea, da Banfi a Anceschi a Formaggio a Mattioli) si è battuta, direi, vittoriosamente.

Il principio fondamentale che crea sintonia tra l’estetica neofenomenologica italiana e le posizioni di Friedmar Apel consiste nel rifiuto di ogni posizione normativa: non si possono dare regole per la traduzione letteraria come non si possono dare regole per l’opera d’arte. Ma, mentre il tramonto delle poetiche normative nel campo dell’attività creativa artistica è avvenuto da tempo, nel campo della traduzione persiste la tendenza a indicare delle regole. (Si consideri a riguardo l’accusa di Apel a Lev?). Come osserva Mattioli: “Il genio e la soggettività assoluta sono elementi dell’estetica romantica oggi irriproponibili come tali. E un fatto rilevato da molti studiosi è che a queste categorie tardo-romantiche ricorrano anche i linguisti che formalizzano il discorso sulla traduzione, e poi - di fronte alla traduzione letteraria - non sanno far altro che riprendere queste vecchie idee”.
Come tradurre, allora, la poesia? Come “riprodurre” lo stile? Sono le domande che a questo punto un traduttologo si sente porre. La risposta potrebbe prendere l’avvio dalla constatazione che le dicotomie (fedele/infedele; fedele alla lettera/fedele allo spirito; ut orator/ut interpres; “traductions des professeurs”/“traductions des poètes”) - da Cicerone a Mounin - inevitabilmente portano a una situazione di impasse, configurando, da una parte, l’intraducibilità dello “stile” e dell’”ineffabile” poetico, e dall’altra la convinzione che sia trasmissibile soltanto un contenuto. Naturalmente il fatto che sia trasmissibile soltanto un contenuto è una pura astrazione, ma è dove si giunge partendo sia da presupposti “crociani”, sia da presupposti “jacobsoniani”. (Notoriamente, per Jakobson, la poesia è intraducibile in quanto il tratto che più la caratterizza è la paronomasia; tuttavia la si può “comprendere” adeguatamente, e dunque interpretare in traduzione, pensando ai significati lirici dei quali è portatrice per il tramite di un’altra lingua).

Non mi pare che la situazione dicotomica di impasse muti analizzando la più recente quérelle francese - nominalmente molto affascinante - tra Henri Meschonic e Jean-René Ladmiral, alias tra sourciers (da “langue-source”, lingua fonte, ma con una inquietante assonanza con l’ambito stregonesco) e ciblistes (da “langue-cible”, o d’arrivo, coniata sulla sigla C.B. che in inglese indica la “citizen’s band”, la frequenza radio riservata al pubblico)7. In altri termini, tra una tendenza naturalizzante - “target-oriented” - che spinge il testo verso il lettore straniero “naturalizzandoglielo” nel contesto linguistico e culturale di arrivo, fino a non fargli capire che si tratta di un testo tradotto; e una tendenza estraniante - “source-oriented” - che trascina il lettore straniero verso il testo, cercando costantemente di accendergli spie relative alla fonte, affinché non dimentichi mai che quel testo è tradotto. (Per fare un solo esempio, è tradizionalmente source-oriented il modo di presentare gli autori stranieri negli Stati Uniti; ma è certamente target-oriented il modo in cui Pound tradusse Leopardi o Cavalcanti). Secondo questa impostazione, lo scontro tra scuole traduttologiche somiglierebbe a quello in atto nel mondo del restauro: farlo vedere il più possibile, o nasconderlo il più possibile.

Se si prescinde dalla simpatia che certe definizioni possono più di altre suscitare, credo sia chiaro come - proseguendo con una impostazione dicotomica - si aggiungano soltanto nuove coppie - come addomesticamento/straniamento, visibilità/invisibilità, violabilità/inviolabilità a quelle da secoli esistenti: libertà/fedeltà, tradimento/aderenza, scorrevolezza/letteralità, sensus/verbum. Né crediamo che un suggerimento per uscire dalla millenaria impasse possa giungere da studiosi pur validissimi - come l’americano Lawrence Venuti, autore di The Translator’s Invisibility8- totalmente schierati sull’uno o sull’altro versante, malgrado la grande finezza - in certi casi - delle argomentazioni esposte. (Nel caso di Venuti, per esempio, è senz’altro di alto livello il costante riferimento a Schleiermacher e alla scuola ermeneutica novecentesca che a lui si ispira).

“Come riprodurre, allora, lo stile?” è la domanda che poco fa abbiamo lasciato in sospeso. Il nocciolo del problema, a nostro avviso, sta proprio nel verbo usato per porre la domanda: riprodurre. Perché la traduzione letteraria non può ridursi concettualmente a una operazione di riproduzione di un testo. Questo può valere al massimo per un testo di tipo tecnico, per il quale è - tutto sommato - congruo continuare a parlare di decodifica e di ricodifica. L’invito nostro è invece a considerare la traduzione letteraria come un processo, che vede muoversi nel tempo e - possibilmente - fiorire e rifiorire, non “originale” e “copia”, ma due testi forniti entrambi di dignità artistica. Uno studio fondamentale a riguardo è l’altro capitale libro di Friedmar Apel: Sprachbewegung. Eine historisch-poetologische Untersuchung zum Problem des Übersetzens9. Il concetto di “movimento” del linguaggio nasce proprio dalla necessità di guardare nelle profondità della lingua cosiddetta di partenza prima di accingersi a tradurre un testo letterario. L’idea è comunemente accettata per la cosiddetta lingua di arrivo. Nessuno infatti mette in dubbio la necessità di ritradurre costantemente i classici per adeguarli alle trasformazioni che la lingua continua a subire. Il testo cosiddetto di partenza, invece, viene solitamente considerato come un monumento immobile nel tempo, marmoreo, inossidabile. Eppure anch’esso è in movimento nel tempo, perché in movimento nel tempo sono - semanticamente - le parole di cui è composto; in costante mutamento sono le strutture sintattiche e grammaticali, e così via. In sostanza si propone di considerare il testo letterario classico o moderno da tradurre non come un rigido scoglio immobile nel mare, bensì come una piattaforma galleggiante, dove chi traduce opera sul corpo vivo dell’opera, ma l’opera stessa è in costante trasformazione o, per l’appunto, in movimento. In questa ottica, la dignità estetica della traduzione appare come il frutto di un incontro tra pari destinato a far cadere le tradizionali coppie dicotomiche, in quanto mirato a togliere ogni rigidità all’atto traduttivo, fornendo al suo prodotto una intrinseca dignità autonoma di testo.

Maurice Blanchot nel suo studio del 1971 intitolato Traduire, riflettendo su Die Aufgabe des Uebersetzers di Benjamin, già riprende questo principio collegandosi alla tradizione humboldtiana che configura un alto grado di dinamismo in ciascuna lingua. Egli mette in dubbio pertanto il luogo comune della superiorità dell’originale rispetto alla traduzione, proprio facendo leva sul principio del movimento del linguaggio nel tempo che - coinvolgendo anche il testo “classico” nella lingua di partenza - contribuisce a quella che Blanchot definisce “la solenne deriva delle opere letterarie”. Una posizione da cui consegue la definizione blanchottiana di traduttore: “Il maestro segreto della differenza delle lingue, non per abolirla, ma per utilizzarla al fine di risvegliare nella propria, con i cambiamenti violenti o lievi che le apporta, una presenza di ciò che, in origine, è differente”. Può così già dirsi superata da Blanchot la metafisica posizione benjaminiana secondo la quale il traduttore libera la verità del testo facendo emergere la lingua pura che sottende tutte le lingue.

Si potrebbe persino affermare che il concetto di movimento del linguaggio nel tempo - che induce a considerare come “storici” (sull’esempio dei romantici tedeschi) sia il testo di partenza sia il testo di arrivo - nel processo della traduzione letteraria possa avere inizio prima ancora della redazione della stesura cosiddetta “definitiva” del cosiddetto “originale”, allorché al traduttore è possibile accedere anche all’avantesto (cioè a tutti quei documenti da cui il testo “definitivo” prende forma), impadronendosi così del percorso di crescita, di germinazione del testo nelle sue varie fasi. A riguardo un linguista come Pareyson parla di “formatività” del testo; un poeta come Gianni D’Elia di “adesione simpatetica, non tanto al testo finito e compiuto, quanto alla miriade di cellule emotive che lo hanno reso possibile. Come tentare di ripercorrerne la trama germinativa, con una fiducia che nessun linguista ammetterebbe, perché essa non precede soltanto il soggetto ma il linguaggio: l’esperienza di un sentire che è appunto fiducia in un dono di ‘contagio’ controllato, inoculato giorno per giorno, fino a interagire con le ragioni più profonde del proprio fare”10.
Il testo, dunque, si muove verso il futuro all’interno delle incrostazioni della lingua, ma anche verso il passato se si tiene conto degli avantesti. Lo dimostra molto bene Lorenzo De Carli nel saggio Proust. Dall’avantesto alla traduzione11, mettendo a confronto le varie traduzioni italiane della Recherche (Raboni, Ginzburg, Mucci, Schacherl, Nessi Somaini, Pinto). Ebbene, dall’analisi testuale appare evidente come i traduttori che hanno potuto (e voluto) accedere anche all’avantesto (nel caso di Proust, ovviamente, i Cahiers), avendo colto il percorso di crescita, di germinazione, subito da quel particolare passaggio proustiano, siano poi stati in grado di renderlo con maggiore consapevolezza critica ed estetica. Ma si pensi agli ottantamila foglietti da cui provengono le quattrocento pagine del Voyage au bout de la nuit di Céline, alle Epifanie da cui discende il Portrait di Joyce, ecc. Il tutto, concettualmente, nella piena consapevolezza della stratificazione delle lingue storiche.

Malgrado la loro solidità e malgrado circolino da vent’anni nell’Europa delle intelligenze sarebbe un errore ritenere che le posizioni teoriche anziesposte siano ormai acquisite, visto che Umberto Eco, nel suo recentissimo Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione (ed. Bompiani), contrappone con sicurezza “il fatto, acclarato, che le traduzioni invecchiano” all’inglese di Shakespeare, che “rimane sempre lo stesso”12.

Perché riteniamo inadeguati gli strumenti della linguistica teorica se applicati alla traduzione letteraria? Perché essi possono funzionare traducendo da un esperanto ad un altro esperanto; appunto, da una lingua di partenza a una lingua di arrivo, attraverso un processo di decodificazione e quindi di ricodificazione. Mentre per tradurre dalla ex lingua di Chaucer e di Shakespeare nella ex lingua di Petrarca e di Tasso occorrono altri strumenti ben più sofisticati ed empirici. Un concetto - quest’ultimo - che Luciano Bianciardi esemplifica con “architettonico” didatticismo all’inizio della Vita agra, allorché descrive il palazzo della biblioteca di Grosseto. Che in precedenza era stata casa insegnante dei compagni di Gesù, e prima ancora prepositura degli Umiliati, e alle origini Braida del Guercio...13
Trasferendo al linguaggio questa descrizione si ottiene l’effetto-diodo, come osservando dall’alto una pila accatastata ma trasparente di strati fonetici e semantici.

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Operativamente, al fine di sfuggire all’impasse delle dicotomie, è forse possibile suggerire una riflessione capace di coniugare cinque concetti, aggiungendo a quelli già considerati di avantesto e di movimento del linguaggio nel tempo i concetti di poetica, di ritmo e di intertestualità. (Anche se la proposta teorica intertestuale, per alcuni aspetti, potrebbe farsi risalire al concetto classico di imitatio o di mimesis, che a sua volta oscillava tra conformatio e commutatio: e quindi saremmo ancora in ambito dicotomico).

Il termine intertestualità appare per la prima volta nel 1966 in un saggio di Julia Kristeva, poi ripubblicato nel 1969 su “Tel Quel”. Secondo la definizione della Kristeva: “Ogni testo si costruisce come un mosaico di citazioni; ogni testo non è che assorbimento e trasformazione di un altro testo”. Una definizione che ha le sue radici nell’idea di “dialogicità” di Bachtin14 e su cui, in seguito, anche Segre si è espresso con molta chiarezza, particolarmente nel saggio “Intertestualità e interdiscorsività nel romanzo e nella poesia” (in Teatro e romanzo. Due tipi di comunicazione letteraria, Einaudi 1984).

Nell’ottica intertestuale la traduzione di poesia o di prosa “alta” o poetica (e nel quinto punto, dedicato al “ritmo”, torneremo su questa presunta differenza) non è che assorbimento e trasformazione di un altro testo. Forzando il concetto non è che una lunga citazione di un testo intero in una lingua straniera. Da questa angolatura ci si sottrae alla impostazione tradizionale che assegna alla traduzione il compito impossibile di una riproduzione totale, e si pone in modo nuovo sia il compito del traduttore sia quello della critica della traduzione.
La traduzione di poesia è contemporaneamente produzione e riproduzione, analisi critica e sintesi poetica, rivolta tanto verso il sistema linguistico straniero, quanto verso il proprio. Traduzione poetica, dunque, non come palinsesto nel senso genettiano di scrittura sovrapposta (nella quale è possibile sceverare il testo sottostante, l’ipotesto), ma come risultato di una interazione verbale con un modello straniero recepito criticamente e attivamente modificato.
Riassumendo quanto esposto da Emilio Mattioli negli editoriali dei primi numeri del semestrale di teoria e pratica della traduzione letteraria “Testo a fronte” (dove per la prima volta sono apparsi molti dei saggi contenuti in questo volume), lettura e analisi intertestuale mirano a cogliere in ogni traduzione la dinamica del suo costituirsi dall’originale, e il suo conflitto con esso. La differenza temporale, spaziale, culturale, linguistica viene a delinearsi come distanza poetica che pone necessariamente in prospettiva ciò che è estraneo. Nella concezione intertestuale, il rapporto originale-copia (che implica una gerarchia di precedenza, di maggiore importanza dell’originale rispetto alla copia) acquista un’altra dimensione: diviene dialogico, e non è più di rango, ma di tempo. In quanto la traduzione poetica viene a configurarsi come genere letterario a sé, dotato di una propria autonoma dignità. Come scrive A. Berman in L’épreuve de l’étranger, “la traduzione non è né una sotto-letteratura (come l’ha considerata il XVI secolo) né una sotto-critica (come l’ha ritenuta il XIX secolo). Ma non è nemmeno una linguistica applicata o una poetica applicata (come si è creduto nel XX secolo). La traduzione è soggetto e oggetto di un sapere proprio. La traduttologia studia questo sapere”.

È evidente che l’intera operazione intellettuale che andiamo proponendo non può non giovarsi della grande tradizione classica e umanistica della retorica15, nella convinzione che - trasponendo i problemi teorici relativi alla traduzione nell’orbita di altri fenomeni letterari - se ne faciliti il distacco, o almeno se ne incrini la esclusiva dipendenza dai grandi formalismi novecenteschi, in particolare dall’ambito strutturalistico e linguistico-teorico.

L’idea che nella comunicazione ci siano due momenti, uno retorico e uno ermeneutico, comporta che ogni comunicazione sia traduzione. Con questa impostazione siamo all’interno di una concezione “aperta” dell’opera letteraria, convinti che nessun testo possa essere invenzione assolutamente originale. (L’assoluto monologismo sarebbe equivalente alla incomunicabilità)16. Se dunque in ogni opera letteraria c’è il riflesso di altre opere - sub specie di calchi, prestiti, rifacimenti, citazioni - e quindi è in corso un dialogo con parole già dette, non si vede perché questo dialogo non possa trovare ulteriore svolgimento nella traduzione. Non si traduce infatti da una lingua ad un’altra, ma da un testo a un altro. E la disparità, il dislivello inevitabile tra autore e traduttore - che è una forma particolare del dislivello sempre esistente tra chi parla o scrive e chi ascolta o legge, anche all’interno della stessa lingua - sono la condizione medesima della libertà e della conoscenza17. È dunque motivo per noi di particolare tristezza rilevare come oggi in Italia il primo avversario di questa impostazione teorica sia proprio il teorizzatore - quarant’anni fa - dell’”opera aperta”. Ma l’autore del Trattato di semiotica, lo si sa, ama i paradossi: vent’anni dopo avere indotto al fallimento letterario i suoi compagni di gioventù, autori di improbabili “opere aperte”, giunse al successo internazionale con l’opera che “più chiusa non si può”: opera che - per altro - chi scrive considera il più grande romanzo illuministico del secondo Novecento.
Con le idee sulla traduzione sostenute da Eco non si esce dalle dicotomie e dai dogmatismi si continua ad oscillare tra Croce e Jakobson nella convinzione che la poesia sia intraducibile. Cerchiamo un’altra volta ancora di impostare in modo diverso la questione volgendoci al concetto di “poetica”. Secondo Luciano Anceschi, “la riflessione che gli artisti e i poeti esercitano sul loro fare, indicandone i sistemi tecnici, le norme operative, le moralità, gli ideali” è la poetica. Nell’ottica della intertestualità, la traduzione letteraria è dunque il rapporto tra due poetiche, quella dell’autore tradotto e quella del traduttore. Come rileva Mattioli, Peter Szondi nel suo studio sul sonetto 105 di Shakespeare tradotto da Paul Celan18 identifica la poetica della traduzione di Celan nel verso “In der Bestaendigkeit, da bleibt mein Vers geborgen”, che rende il verso shakespeariano “Therefore my verse to constancy confined”. La costanza, che è il tema del sonetto di Shakespeare, diventa nella traduzione di Celan il fattore costitutivo del verso. Szondi compie quindi un acutissimo rilievo di poetica che porta ad una comprensione tutta interna della traduzione. E ciò accade con Giorgio Orelli traduttore di Goethe e con Giaime Pintor traduttore di Rilke, con Massimo Mila traduttore delle Affinità elettive o con Paola Capriolo traduttrice de La Morte a Venezia19. In buona sostanza con quelle che Henri Meschonnic definisce le “traduzioni-testo” (a esempio egli cita S. Gerolamo, Lutero, Pasternak, Ezra Pound, Robert Graves, Paul Celan, Baudelaire come traduttori) distinguendole dalle traduzioni-non-testo destinate a deperire rapidamente.

Mattioli invita inoltre a rileggere il commento di Valéry alla sua traduzione delle Bucoliche20 per scoprire come il modo in cui il poeta del Cimetière marin prospetta il rapporto tra originale e traduzione tolga ogni rigidità all’atto traduttivo accantonando ogni idea di copia, di rispecchiamento, e quindi lo qualifichi in tutta la sua dignità. E questo proprio perché propone un rapporto poietico, un rapporto tra due poetiche, fra due momenti costruttivi, fra due processi, non fra due risultati definitivi e fermi. Una posizione, questa, ampiamente condivisa anche da Henri Meschonnic nel suo Poétique du traduire (1999). Sostiene Mattioli in Studi di poetica e retorica21: “È proprio sull’abbandono di ogni posizione normativa che si gioca la possibilità di dare una impostazione nuova ai problemi della traduzione e al loro studio. Non ha nessun interesse continuare a discutere se si possa o non si possa tradurre, partendo dall’idea di traduzione come copia perfetta che per principio non si dà”. Questa svolta22 è analoga a quella avvenuta in campo estetico quando cambiò la domanda essenzialistica “che cosa è l’arte?” in quella fenomenologica “come è l’arte?”. E così come la domanda fenomenologica relativa all’arte consentì il recupero pieno delle poetiche, dei generi letterari, della tecnica artistica, del discorso sugli stili ecc., disincagliando la critica dalla alternativa rigida fra poesia e non poesia, allo stesso modo la proposta di considerare la traduzione letteraria in tutta la sua non riducibile complessità, sottrae il discorso sulla traduzione all’impasse delle alternative secche, dicotomiche e/o giocherellone23.
Se si possa o non si possa tradurre poesia; se si possa o non si possa, o peggio, se sia lecito o meno tentare di “riprodurre” in traduzione lo stile di un autore: sono queste le domande che consideriamo assolutamente superate. Come considera Mattioli nel saggio introduttivo all’edizione italiana dell’opera di Apel: “È evidente che la lezione da ricavare non è certo quella della negazione dell’apporto della linguistica al problema del tradurre, bensì della pretesa di alcuni linguisti di ridurre il problema ad una sola dimensione, ad una disciplina soltanto. La nostra è dunque una idea aperta della traduzione letteraria, una ripresa in chiave attuale della grande riflessione della Fruehromantik sulla traduzione come compito senza fine, nella forte consapevolezza della presenza di una molteplicità di variabili nel processo traduttivo e della ineliminabilità del tempo che, solo, dà alla ricerca sul tradurre complessità, fascino e significato”.
Quanto al concetto di ritmo, si veda il volume Ritmologia. Il ritmo del linguaggio. Poesia e traduzione, apparso nel 2002 per i tipi di Marcos y Marcos - mi limito in questa sede a ricordare i tre fondamentali indirizzi della ricerca: un indirizzo filosofico, un indirizzo filologico-linguistico, un indirizzo poetico.
Nel primo ambito configuriamo i filosofi, che tendenzialmente dovrebbero applicarsi alla categoria della ritmicità in senso ampio, cercando la funzione che il ritmo ha nel mondo. Nel secondo ambito configuriamo i filologi, che guardano al ritmo cercando anzitutto di definire che cosa esso sia (e qui la auctoritas è quella di Beda il Venerabile: “Il ritmo può sussistere di per sé, senza metro; mentre il metro non può sussistere senza ritmo. Il metro è un canto costretto da una certa ragione; il ritmo un canto senza misure razionali”; una definizione che ritroviamo modernamente espressa nel recente Traité du rythme di Meschonnic e Dessons: “Il ritmo non è formalista, nel senso che non è una forma vuota, un insieme schematico che si tratterebbe di mostrare o no, secondo l’umore. Il ritmo di un testo ne è l’elemento fondamentale, perché ritmo è operare la sintesi della sintassi, della prosodia e dei diversi movimenti enunciativi del testo”)24. Compito dei filologi è dunque di accordarsi sul significato, di studiare la parola, e infine di condurre l’analisi secondo modalità che contemplano la lingua e la storia della lingua.

Con i poeti, infine, ciò che conta del ritmo è il momento in cui esso si fa parola, cioè diventa linguaggio e dunque si realizza attraverso una particolare intonazione, non nel senso di scansione metrica misurata, bensì nel senso eracliteo di un corpo che si fa lingua e discorso (Meschonnic). Poiché il ritmo è soggetto, se un poeta trova il ritmo, trova il soggetto; se non lo trova, i versi che sta scrivendo non sono arte. E questo vale tanto per la scrittura letteraria “originale” quanto per quella in traduzione.